La maggioranza dei trenta e quarantenni si ritirerà dal lavoro con
un assegno dimezzato rispetto allo stipendio. Due esperti ci aiutano
a capire quando e come ricorrere alla previdenza complementare
La famosa busta arancione dell’Inps ci ha messo in allarme: prenderemo una pensione bassa. I più fortunati, intorno al 75% del reddito annuale. Ma i nati negli anni ’80, soprattutto se hanno una carriera lavorativa discontinua, si fermeranno al 50%. Certo, sono solo ipotesi. Nessuno può prevedere l’economia dei prossimi decenni. Ma queste previsioni hanno spinto tanti italiani a rivolgersi alla previdenza complementare, che l’anno scorso ha registrato un +13,4% di adesioni. C’è da fidarsi? Un dato è certo: la legge dà qualche garanzia. Il denaro versato per la pensione integrativa non è pignorabile neppure da Equitalia e viene escluso dalla nuova regola europea “bailin”, che in certi casi obbliga i correntisti a pagare di tasca propria se una banca fallisce.
Ma non mancano i lati oscuri. «Chi può, deve scegliere senz’altro i Fondi chiusi, i più economici a livello di costi» spiega Giuseppe Romano, membro del consiglio direttivo di Nafop (associazione dei consulente finanziari indipendenti). Sono, in sostanza, fondi di investimento riservati ai titolari dei principali contratti nazionali di lavoro (Cometa è il fondo dei metalmeccanici, Fonchim dei chimici e così via), dove un organo gestito insieme da imprese e sindacati affida gli investimenti ad alcune Sgr specializzate (Società di gestione del risparmio). E tutti gli altri? Lavoratori dipendenti e autonomi possono aderire ai fondi o ai Pip (piani pensionistici) gestiti dalle banche o dalle assicurazioni che li propongono al mercato. Allora vediamo con gli esperti come valutare i pro e i contro di questi prodotti.
I dipendenti possono scegliere: versare il Tfr, contribuire con i propri risparmi o fare entrambe le cose. Gli autonomi, invece, hanno solo la strada dei versamenti individuali. Ci può essere anche un contributo del datore di lavoro che dipende dagli accordi aziendali o di categoria. «Prima di aderire informati ma ricordati che per usufruire anche della quota versata dalla società, sei obbligata a versare sia il Tfr sia una percentuale aggiuntiva» specifica Giuseppe Romano.
Le somme versate si deducono dalla dichiarazione dei redditi fino a 5.164,57 euro l’anno (esclusa la quota che viene versata dal Tfr). «Ecco perché anche molti 50 e 60enni hanno deciso di aderire. Usano i fondi non tanto come pensione futura, ma come modo per risparmiare» spiega il consulente. C’è una convenienza anche rispetto ai rendimenti annui dei fondi che sono tassati tra il 12,5 e il 20%, rispetto al 26 che grava su conti deposito o azioni.
Di solito si versa ogni mese, ma la maggioranza dei prodotti permette ormai di accordarsi per scadenze diverse: ogni 3, 6 o 12 mesi. Di norma si può sospendere, senza limiti di tempo e penalità, il contributo volontario (in questo caso si perde anche quello del datore di lavoro), mentre la quota Tfr va comunque versata (lo fa direttamente l’impresa).
Tfr: meglio in azienda o in un fondo pensione?
Di solito la previdenza complementare vince a livello di rendimento. Nel 2015, per esempio, i fondi negoziali hanno strappato in media + 2,7% di rivalutazione, +3% i fondi aperti e +3,7% i Pip, mentre il Tfr lasciato in azienda si è fermato all’1,2%. «Però il denaro affidato ai fondi può subire perdite, mentre la rivalutazione del Tfr in azienda è certa: parte dall’1,5% annuo minimo e aumenta in caso d’inflazione, per difendere il potere d’acquisto» spiega il professore Beppe Scienza.
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