Menon (Consultique SCF), “Twitter censura Trump. Per evitare la revisione della Section 230”
Secondo l’analista, la società di Jack Dorsey, ma anche Facebook, Google e Amazon, sono state costrette a mostrarsi severe nei confronti del presidente Usa per evitare una nuova regolamentazione che potrebbe includere un obbligo legale di controllo e rimozione dei contenuti di odio per le piattaforme. Il titolo ha perso quasi il 14% in quattro sedute
Le purga di Twitter, che ha bannato il presidente uscente Donald Trump e sospeso o limitato una parte dei suoi follower, non è piaciuta ad Angela Merkel, che si è espressa in modo chiaro: “La censura di Trump è problematica, e non deve essere un manager a decidere”, ha detto due giorni fa la cancelliera tedesca. La Francia ha parlato per bocca del ministro dell’economia Bruno Le Maire: “Ciò che mi sciocca è che sia Twitter a decidere di chiudere il profilo di Trump. La regolamentazione dei colossi del web non può avvenire attraverso la stessa oligarchia digitale". Anche il mercato si è pronunciato regalando a Twitter una settimana decisamente negativa: dopo la chiusura definitiva dell’account di Trump (scelta poi presa da altre piattaforme) il 6 gennaio, l’azione ha perso quasi il 14% in quattro sedute, e un destino analogo è toccato a Facebook.
Ma quanto vale esattamente il ban (ovvero il blocco dell’account) di Donald Trump per la società di Jack Dorsey? Come spiega Piermattia Menon, analista, Ufficio Studi e Ricerche di Consultique SCF, è difficile fare un calcolo affidabile, ma sicuramente non è una cifra trascurabile. Con quasi 89 milioni di follower, quello di Trump era il sesto account più seguito (il primo è quello di Barack Obama con 128 milioni di follower), ma generava un engagement (o coinvolgimento) elevatissimo dato il numero esorbitante di tweet, commenti e retweet. “Inoltre – spiega Menon - la piattaforma Twitter, per le sue caratteristiche, è molto legata all’hype della politica, soprattutto da quando il presidente l’ha utilizzata per veicolare temi e contenuti sostanzialmente rigettati dai media tradizionali, perché non superavano il fact checking o perché ritenuti troppo estremisti”. E anche se le statistiche di utilizzo della piattaforma individuano una netta prevalenza di pubblico a inclinazione democratica, secondo Menon la base elettorale di Trump potrebbe decidere di lasciare il social o comunque di diminuire nettamente l’interazione con pesanti conseguenze sui ricavi di Twitter.
Ma davvero le Big Tech sono disposte a perdere utenti, e quindi denaro, in nome della loro policy? Qual è in realtà la posta in gioco? Quest'ultima sarebbe niente meno che la regolamentazione del settore, e nello specifico della sezione 230, un piccolo paragrafo di una legge del 1996 che di fatto libera i siti web da ogni responsabilità legale circa le affermazioni e i materiali pubblicati sulle loro pagine dai loro utenti. “Twitter, ma anche Facebook, Google e Amazon sono state sostanzialmente costrette a mostrarsi severe nei confronti di Trump per evitare di offrire il fianco a una revisione netta della sezione 230 con la previsione di un obbligo legale di controllo e rimozione dei contenuti d’odio”, afferma Menon.
Twitter in particolare, secondo l’analista, non sarebbe attrezzata per procedere a controlli massivi di questo genere, e i costi di implementazione potrebbero essere notevoli. Sul piatto, insomma, ci sono le perdite attuali e quelle future, che potrebbero essere infinitamente superiori. “Probabilmente i democratici vorranno comunque procedere alla revisione della sezione 230, ma almeno i social potranno mettersi al tavolo delle trattative mostrando una (forse tardiva) buona volontà”, conclude Menon.